Così scrive sul giornale on-line
«Sentire» Valentina Nicolussi Castellan, che lavora al
Centro di documentazione di Luserna,
museo attivissimo e cuore della
cultura cimbra.
Storie come quella di
Frau Pèrtega non sono casuali in questo
paesaggio alpino, dove «
cavità nelle rocce, grotte, e spelonche che si addentrano nelle montagne rappresentano gli unici accessi che permettono il contatto tra il “mondo dei vivi” e il “mondo dei morti”», spiega la ricercatrice. È questo ciò che accade, giurano tutti, nella caverna dell’Ursula. Per conoscere la
storia di Fau Pèrtega ci si può inoltrare nel
Sentiero dell’Immaginario, il «
Nå in tritt von Sambinélo», un
percorso ad anello lungo 7 chilometri nei dintorni di
Luserna, il piccolo
paese trentino dove si concentra la comunità cimbra. Un
paio d’ore di camminata per scoprire nel bosco il basilisco-drago e le distese di campi fioriti; una sosta di ristoro alla
Malga Campo e, poi, ancora, nei
boschi dove si aggira Sambinelo, il folletto vestito di rosso.
I
cimbri hanno resistito con le armi della memoria e della lingua, ed entrambe affondano nei piedi di coloni bavaresi scesi mille anni fa in questo lato delle Alpi. Fiorenzo Nicolussi Castellan, del
Kulturinstitut Lusérn, racconta che «
il primo documento disponibile è datato 1055: sono elencati nomi di capifamiglia con rispettivi paese d’origine, che in periodo di carestia abbandonarono i propri paesi per spostarsi nelle terre di proprietà del convento di S. Maria in Organo a Verona». Da allora, l’isolamento fisico di vallate e pendii, la paura e lo scambio nell’incontro coi vicini, hanno forgiato la lingua cimbra, uno spartito di
antico tedesco e influssi di dialetti che premono ai fianchi. «
Il periodo di massima estensione della lingua cimbra — spiega il ricercatore — si ha all’inizio del 1700: all’epoca, in un territorio compreso tra i fiumi Adige e Brenta, parlavano cimbro attorno alle 20 mila persone. Da allora è iniziato un lento inesorabile calo».
Oggi, si dicono
cimbri non più di
1500 persone. E
Luserna, coi suoi
250 abitanti, ne è la capitale. Resiste Luserna, come un’
isola di una cultura ancestrale. Così come ha sempre resistito allo sferzare del vento del nord, alla difficoltà di arrivarci e di spostarsi, all’emigrazione. E ha resistito al fascismo e ai conflitti carsici tra il
mondo italiano e quello tedesco. In quella resistenza, poi riconosciuta dalle istituzioni, ribolle un’effervescente
comunità che ha saputo attrarre visitatori e ricercatori, complice anche un paesaggio naturale mozzafiato. «
Un flusso di turismo che a volte è curioso e dolce, ma spesso è predatorio, come dappertutto», riflette Stefano Galeno, del Kulturinstitut.
«Il problema — dice —, è che salvare la lingua non basta, bisogna salvare Luserna».
In comunità è un fiorire di iniziative, che l’epidemia ha solo rallentato. Come il vivaio di nuove imprese, lanciato l’anno scorso dagli «Stati generali della montagna», artefice la Provincia autonoma di Trento, nel settore agricolo e dell’agriturismo. E così i bandi per dare in comodato d’uso alloggi per chi vuole trasferirsi a Luserna, impegnandosi a dare parte del proprio tempo libero a favore della comunità locale. «Anche lo smartworking — continua Galeno — può diventare un’opportunità, per permettere a chi vuole venire, di fermarsi a viverci». D’altra parte, «a khnott boda rodlt bart nia machan rakh», un sasso che rotola non potrà mai fare muschio: qui c’è una comunità da rilanciare, perché non rotoli nell’oblio.
Credit.
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